Gestire Competenze

Gestire competenze

Abbiamo scelto questo titolo pensando a tutto ciò che riguarda il capitale umano della nostra cooperativa. Quel capitale umano che ne fa la ricchezza, non perché questa sia una formula che vada di moda e che occorre ripetere come un mantra, ma perché effettivamente nel lavoro sociale sono le persone quelle che rendono una impresa capace di operare in maniera soddisfacente. La capacità di rendere motivate queste persone, di aiutarle a migliorare le proprie competenze, di costruire buone relazioni nei gruppi di lavoro, di massimizzare la comunicazione interna, di aumentare le competenze decisionali…

Di queste cose cercheremo di occuparci qui di seguito, scegliendo per voi i materiali che ci sembrano più adeguati e più interessanti.

Gli psicologi sono concordi sul fatto che i conflitti devono essere risolti. Ma la domanda è semplice: come? Ci sono sei diversi modi in cui ci si può comportare:

  1. Fuggire – Non significa altro che scansare una decisione, quindi il conflitto non verrà risolto- La situazione rimane immutata. Si deve concludere che nessuna delle due parti ci guadagna (“lose-lose’).
  2. Lottare – Chi affronta un rapporto conflittuale attaccando ha un solo scopo: vincere. Ma vincere solamente non è sufficiente: ci vuole qualcuno che perda. Si tratta dì superare l’avversario, soggiogarlo. Nella lotta si inserisce il desiderio di imporre la propria posizione contro l’opposizione altrui. Si verifica una situazione “win-lose”.
  3. Rinunciare – Chi abbandona la propria posizione in un conflitto lo risolve automaticamente dandosi per sconfitto. Si viene a creare una situazione “lose-win”.
  4. Declinare responsabilità – Chi si sente troppo oberato in un conflitto delega spesso la decisione, e quindi anche il confronto, a un’altra istanza, in genere superiore. In questo modo risolve il conflitto, ma non necessariamente in maniera salomonica e nel proprio interesse. Sussiste il rischio che le due parti in conflitto perdano entrambe (situazione “lose–lose”).
  5. Raggiungere un compromesso – II punto di divisione delle strategie sin qui descritte è dato dai cosiddetti compromessi. In base a come viene percepito, il compromesso è una soluzione sostenibile per entrambe le parti, ma spesso è accompagnato dall’impressione che non si sia raggiunto il risultato migliore, ma solamente “quello possibile in base alle circostanze” (situazione “win-lose/win-lose”).
  6. Trovare consensi – II consenso si basa su una nuova soluzione in grado di placare il conflitto, da raggiungere insieme. A differenza del compromesso, qui entrambe le parti vivono una situazione “win-win”, in quanto nessuna deve cedere, ma insieme si deve cercare una terza via.

Il vero fallimento non dipende dalla sconfitta che abbiamo subito, ma delle discussioni che non abbiamo mai fatto. Graffito in un centro giovanile a Berna

Lo strumento

Esistono migliaia di modelli che spiegano come creare un team, ma il più chiaro e immediatamente percepibile è quello proposto dagli americani Alan Drexler e David Sibbet, fondatori della società di consulenza aziendale Grove.

Il loro modello, il team performance model, mostra sette fasi diverse che vengono abitualmente attraversate da chi partecipa a un progetto. Seguite le frecce: ogni passo è caratterizzato da una domanda di fondo, che ci si deve porre in quella fase (all’inizio: perché siamo qui? In seguito: cosa facciamo ora? Alla fine: perché continuare?), e da alcune caratteristiche, che descrivono lo stato dei partecipanti in ogni determinata fase – da un lato si trovano gli elementi più problematici e dall’altro i punti di forza raggiunti dal team. Molti degli step risultano fin troppo chiari, quasi scontati. Importante: l’esperienza mostra che ogni gruppo li percorre lutti. Se si salta un passaggio, si deve tornare indietro.

Se guidate un team dovrete per prima cosa introdurre il modello. Poi, dopo l’inizio del progetto, chiedete regolarmente ai membri del vostro team: a) in quale fase bel progetto siete? b) cosa è necessario per poter raggiungere la fase successiva? Se non sapete con certezza dove si trova il vostro team, associate ad ogni fase alcune definizioni (vedi illustrazione) e domandatevi: quali si riferiscono a voi personalmente? E quali al team? Non abbiate paura di eventuali sentimenti negativi da parte dei partecipanti. Peggiore del conflitto aperto è infatti quello rinviato, che in seguito vi costringerà alla fine del progetto a trattare quei temi che avreste dovuto affrontare prima. Attenzione! Non cercate di adattare necessariamente il vostro team al modello in modo formale. Si tratta di un orientamento, dì una bussola, non di un programma da seguire passo dopo passo. I gruppi si spostano in avanti solo quando uno osa fare il primo passo. Ma dovreste essere pronti anche a fare il primo errore.

Sibbet cut

Indipendentemente che siate il coordinatore di un servizio residenziale, il Project Manager di un progetto europeo, l’ideatore di un nuovo servizio o il responsabile della formazione, vi porrete sempre le medesime domande: ho a disposizione le persone giuste per il mio progetto?

Le competenze che abbiamo corrispondono al programma che ci siamo prefissati? Sappiamo quello che vogliamo? Il modello qui proposto vi aiuta a valutare la squadra. Stabilite innanzitutto quali sono le abilità, le competenze, le risorse che vi sembrano importanti per quel dato progetto, poi annotate anche le capacità assolutamente necessarie. Distinguete anche tra capacità soft (come lealtà, motivazione, affidabilità) e hard (come uso del computer, conoscenza di lingue straniere).

Definite quindi dove si trova il vostro limite critico. Per esempio: sotto 5 = italiano con qualche errore; sopra 5 = italiano perfetto. Valutate ora i vostri “giocatori” su una scala da 0 a 10 e collegate i punti con le linee. Dove sono le debolezze del team? E dove i suoi punti di forza? Ancora più interessante del modello in sé è la discussione sull’autovalutazione. Un buon team è infatti in grado di valutare in modo corretto le proprie possibilità. Attenzione! La vera forza si trova nelle differenze, non nelle somiglianze.

modello team cut

Negli ultimi 100 anni le teorie sulla leadership sono passate da un’interpretazione all’altra. All’inizio del secolo, Taylor e Ford ritenevano che l’uomo fosse come una macchina e andasse trattato come tale. Per Hawthorne i risultati migliori non si raggiungono con condizioni di lavoro gestite in modo obiettivo, bensì grazie 3 fattori sociali. Clark e Farley affermano che le organizzazioni possono regolarsi da sé. Secondo Porter, invece, il management strategico, cioè la divisione delle organizzazioni in attività primarie e secondarie, porta al successo. Un’altra considerazione proviene da Paul Bersey e Ken Blanchard, i quali sostengono che ciò che conta veramente è gestire la situazione in modo adeguato. Hersey e Blanchard hanno elaborato negli anni ’70 la teoria della leadership situazionale. Secondo i due autori non esiste uno stile di leadership valido sempre, in tutte le situazioni, bensì esistono dei modelli che sono validi in una determinata situazione. In particolare bisogna tenere conto della maturità dei propri collaboratori.

Quest’ultima può essere intesa in due sensi:

  • la maturità lavorativa, ovvero le capacità tecniche, le conoscenze, l’esperienza acquisita nello svolgere determinati compiti;
  • la maturità psicologica, ovvero la disponibilità, la motivazione a fare qualcosa, la fiducia in se stessi.

Lo stile di leadership deve adattarsi alla maturità dei collaboratori. Al variare di quest’ultima deve variare il comportamento direttivo e quello di relazione del leader. Per comportamento direttivo si intende «quello che i leader adottano per organizzare e definire il ruolo dei membri del loro gruppo; spiegare quali attività ciascuno di loro debba svolgere e quando; come e dove essi debbano portare a termine i compiti assegnati; si caratterizza per lo sforzo di stabilire in forma molto rigida dei modelli di organizzazione, dei canali di comunicazione e dei metodi predeterminati per portare a termine un lavoro affidato». Per comportamento di relazione si intende, invece, «quello che i leader adottano per mantenere dei rapporti personali fra loro e i membri del loro gruppo, aprendo canali di comunicazione, offrendo un sostegno socio-emotivo, gratificazioni psicologiche, e assumendo comportamenti agevolanti». Secondo il modello in esame si possono avere quattro stili di leadership diversi: ognuno di essi è valido in presenza di una determinata maturità dei collaboratori. I quattro stili sono:

  • 1. Istruire. Se i collaboratori presentano una scarsa maturità, non hanno adeguate competenze, né sono pronti ad assumersi delle responsabilità è necessario che il leader adotti uno stile basato su un alto comportamento direttivo e un basso comportamento di relazione. Il leader definisce i ruoli, stabilisce quali attività devono essere svolte, in che modi, in quali tempi;
  • 2. Motivare. Se i collaboratori presentano una maturità-medio bassa con scarse competenze, ma una disponibilità ad assumersi delle responsabilità e fiducia in se stessi, lo stile di leadership più adatto è quello dato da un alto comportamento direttivo e un alto comportamento di relazione. Il leader definisce i ruoli, le attività da svolgere, i modi e i tempi, ma sostiene i suoi collaboratori cercando di far accettare le scelte adottate;
  • 3. Sostenere. Se i collaboratori hanno una maturità medio-alta per cui sono capaci, ma non dispongono di una adeguata fiducia in se stessi, il leader deve scegliere uno stile fondato su un basso comportamento direttivo e un alto comportamento di relazione in modo da spronarli ad utilizzare le proprie capacità
  • 4. Delegare. Se i collaboratori hanno un alto grado di maturità, dispongono delle competenze tecniche, sono disponibili e sicuri di sé, il leader può adottare un comportamento basato su un basso comportamento direttivo e un basso comportamento di relazione limitandosi a definire gli obiettivi e lasciando decidere ai collaboratori come realizzarli.

Gestite i collaboratori in modo da diventare voi stessi superflui. Gestite i collaboratori in modo che divengano cosi bravi da voler loro stessi gestire in futuro.

“Le scelte più urgenti sono raramente le più importanti”: pare che queste parole siano state pronunciate da Dwìght D. Eisenhower. L’ex presidente statunitense è considerato un vero e proprio maestro del time management, ovvero della capacità di fare ogni cosa al momento giusto. Con il metodo Eisenhower imparerete a distinguere ciò che e importante da ciò che è urgente. Indipendentemente da quale compito vi ritroviate sulla scrivania, catalogatelo immediatamente secondo la matrice di Eisenhower, e poi decidete cosa fare in quale momento. Spesso, infatti, vi focalizzate troppo sul campo “urgente e importante”, cioè sulle cose che devono essere fatte immediatamente. Poi però fermatevi e chiedetevi; quando riuscirò a fare le cose importanti ma non urgenti? E poi, quando troverò il tempo per svolgere i compiti importanti, prima che diventino urgenti? In questo settore si trovano infatti le decisioni strategicamente a lungo termine.

Un altro metodo per suddividere il tempo a disposizione in modo più efficiente è attribuito al multimiliardario Warren Buffet. Preparate un elenco di tutto quello che volete fare oggi, quindi iniziate con il primo compito della lista, e passate poi al successivo solo quando avete terminato quello precedente. Cancellate a mano a mano le cose eseguite. Meglio tardi che mai. Ma mai tardi è meglio.

Matrice Eisenhower cut

L’analisi SWOT permette di identificare i punti di forza (Strenghts), le debolezze (Weaknesses), le possibilità (Opportunities) e i pericoli (Threats] di un progetto. Il modello prende le mosse da uno studio della Stanford University realizzato negli anni Sessanta, durante il quale furono analizzale le imprese statunitensi di maggior successo. Il risultato fu il seguente: la discrepanza tra quello che le suddette imprese avevano progettato e quello che era stato effettivamente realizzato ammontava a circa il 35% II problema non riguardava l’incompetenza del personale, bensì la mancanza dì chiarezza del programma. Molti tra l’altro non conoscevano nemmeno lo scopo dì quello che facevano. Il risultato di quanto scoperto fu l’ideazione dello SWOT, dall’acronimo di Strengths, Weaknesses, Opportunities e Threats, allo scopo di migliorare la conoscenza del progetto stesso da parte dei partecipanti.

Nell’utilizzo dell’analisi SWOT è più logico non limitarsi a completare i settori, bensì chiedersi: come possiamo sottolineare le nostre forze e compensare (o mascherare) le nostre debolezze? Come sfruttare al meglio le nostre possibilità? Come proteggersi efficacemente dai pericoli?

L’analisi SWOT ha una vasta gamma dì impieghi: è utile infatti sia per le decisioni sul lavoro sia per le scelte personali.

SWOT cut

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